Ricordi balcanici
Esistono storie che vadano raccontate, nonostante possano far soffrire o facciano tornare i brutti ricordi. È una storia del genere. Non la si può definire bella, o con un finale felice, ma è la storia, vista dagli occhi della bambina di allora, la donna di oggi, mai dimenticata.
C'era una volta, tutte le favole del mondo cominciano con quella frase, e anche questa, che forse non si potrebbe classificare come tale, in mancanza di quel vissero felici e contenti per tutta la vita, non fa eccezione.
C'era una volta un paese, che si chiamava Iugoslavia, in cui sono nata più di trent'anni fa. Un paese grande, bello, in cui viveva la gente di tante nazionalità e religioni diverse in tranquillità. Un paese all'apparenza libero e forte che era d'esempio per tutti. Un paese perfetto, si direbbe, ma forse non era proprio così visto la brutta fine che ha fatto.
Per me, che ho vissuto lì nei primi dieci anni di vita, era un paese unico. Credevo ancora nella favola della fratellanza e dell'unità, forse l'avevo anche idealizzato un po', ma era il mio mondo, bello e dorato che mi dava la sicurezza, il benessere e la possibilità di visitare tanti bei paesi all'estero, grazie a quel passaporto rosso che apriva, come una specie di chiave magica, le porte dei tesori occidentali.
Poi, d'improvviso, l'incanto in cui credevo con tutta me stessa, svanì nel nulla. Era l'estate del 1991. Come sempre, passavamo le vacanze in una cittadina greca alla quale era legata tutta la mia infanzia. Una telefonata da mio nonno ci fece interrompere le tanto amate ferie. Ero confusa. Non capivo molto, solo che la Slovenia e la Croazia avessero dichiarato l'indipendenza dal resto del paese, e che non era una cosa bella, visto che in giro di poche ore i miei genitori prepararono il nostro rientro anticipato a casa.
La parola guerra non era molto ben chiara e definita nel dizionario di una bambina decenne. Quando ero piccola, i ragazzi spesso giocavano a partigiani contro tedeschi, evocando una guerra non vissuta da noi, ma da nostri nonni sì eccome, che credevo sarebbe stata l'ultima. La guerra, sapevo, era una cosa bruttissima, ma era qualcosa del passato, che non poteva esistere nel presente. Invece mi sbagliavo. Nel giro di pochi giorni iniziò quello che grandi chiamarono la guerra civile ma che non aveva proprio nulla di civile. Tutt'altro.
Come una cosa così negativa come la guerra, dove combattevano amici contro amici poteva essere una cosa civile? Non aveva nulla di positivo né corretto in sé. Si moriva, ma non riuscivo a capirne ragione. Era possibile che l'amore, la fratellanza fossero così facilmente distruttibili? Se tutto questo oddio davvero esisteva, il paese che avevo amato così tanto era solo una bugia? Non capivo. E più domande mi facevo, più confusa diventavo. Sei piccola, non puoi capire – mi dicevano. Infatti, non capivo. Forse mai ci riuscirò.
In Slovenia il conflitto durò poco, è infatti conosciuto come la “guerra di dieci giorni”, ma si spostò in Croazia, guidata all'epoca da Franjo Tudjman, dove si combatteva in oltranza, fino al 1995. Era una guerra sporca, segnata da pulizie etniche e da tanti Serbi che furono costretti a lasciare le loro case e trovare il rifugio in Serbia. Ricordo come se fosse ieri quando i primi profughi vennero nella nostra città. Li sistemarono nella scuola elementare che frequentavo all'epoca. Era la prima volta che sentii la parola profugo. Anche noi saremo profughi, come loro? Mi domandavo spesso chiedendomi dove saremo andati se la guerra fosse arrivata anche da noi. Ma non fu il caso.
L'anno successivo si cominciò a combattere anche in Bosnia ed Erzegovina, con a capo Alija Izetbegovic, che era nota per il suo essere multietnico, dove convivevano tre etnie diverse: Serbi, Croati e Musulmani. In Bosnia avevo un'amica carissima, musulmana, con la quale il rapporto d'amicizia datava da molto prima che scoppiasse l'inferno balcanico. Ci eravamo conosciute in Macedonia, l'altra repubblica iugoslava che presto sarebbe diventata anche essa indipendente, due anni prima e avevamo l'abitudine di scriverci lunghe e bellissime lettere che un giorno smisero di arrivare. Quando la chiamai mi disse che dovevo dimenticarla e che non potevamo essere più amiche. I nostri connazionali combattevano, ma io non c'entravo. Non capivo, ma dovevo adattarmi alla situazione contro la mia volontà.
Che brutta cosa la guerra, allontanava i vecchi amici perché lo imponevano quei pazzi nazionalisti che un giorno avevano deciso di distruggere il mondo di molti bambini che non avevano nessuna colpa, se non quella di essere nati in un paese “sbagliato” oppure soltanto guidato dalle persone sbagliate. Tre pazzi, che non hanno fatto nulla per fermare la guerra in atto, tra quali uno in particolare importante, che era a capo della mia patria di adesso, Serbia.
Si chiamava Slobodan Milosevic ed era a capo del partito socialista, nonché il presidente della Serbia. Durante il suo regno il paese era piombato in un completo isolamento internazionale cominciato con le sanzioni economiche imposte dall'ONU nel 1992 che si sono protratte per 1271 giorni. Ricordo le difficoltà, soprattutto economiche, di quegli anni. Il valore del dinar, la moneta serba, cambiava tante volte al giorno. La nonna mi dava i soldi, quando riceveva la pensione in mattinata per comprare qualcosa, che nel giro di poche ore non avevano alcun valore.
Con i suoi compari il croato Tudjman e il bosniaco Izetbegovic, aveva combattuto a lungo, con vari piccoli accordi di pace che durava poco. Era una guerra terribile che aveva distrutto molte famiglie, con tante vittime in ogni parte dell'ex-paese, durata fino al 1995, quando i tre “grandi” si degnarono a firmare gli accordi di pace di Dayton che porsero fine al conflitto armato.
In Serbia, poi, nel 1999, per tre mesi ci fu il bombardamento della NATO, in seguito alla crisi del Kosovo. Tre mesi lunghi che avevano segnato la mia esistenza e che, in parte, furono la classica goccia che fece traboccare il vaso, visto che l'anno successivo lasciai il paese e mi trasferii in Italia che, l'ironia della sorte, fu uno dei paesi dell'alleanza che aveva partecipato al bombardamento. Lo stesso anno in cui me ne andai, il 5 ottobre cadde il regime del tiranno Milosevic, che fu mandato all'Aia, al tribunale internazionale dove fu processato per i crimini di guerra. Proprio lì morì, nel marzo 2006.
Non lo amavo, anzi lo detestavo. La sua morte non mi fece né freddo né caldo. Con il suo decesso finì un'epoca della storia del paese che non c'è, morto e sepolto per molti, ricordato con nostalgia dagli altri. Al suo posto ci sono altri piccoli paesi, ancora segnati dalle tristezze del passato che mirano a un futuro migliore. Sono successe tante, troppe cose per essere dimenticate, nonostante fossero passati due decenni dallo scoppio della guerra. Quella guerra orrenda che aveva cambiato la vita di molte persone, per sempre. Ricordi brutti non possono essere cancellati facilmente, ma memorie, quelle, almeno, possono far sì che non ripetiamo gli stessi errori un'altra volta. Evitiamo ai bambini di oggi il dolore che, a nostra volta, abbiamo provato al vedere scomparire un mondo che pensavamo fosse l'unico.
©2012 Emina Ristovic, The Italian Heritage Magazine
C'era una volta, tutte le favole del mondo cominciano con quella frase, e anche questa, che forse non si potrebbe classificare come tale, in mancanza di quel vissero felici e contenti per tutta la vita, non fa eccezione.
C'era una volta un paese, che si chiamava Iugoslavia, in cui sono nata più di trent'anni fa. Un paese grande, bello, in cui viveva la gente di tante nazionalità e religioni diverse in tranquillità. Un paese all'apparenza libero e forte che era d'esempio per tutti. Un paese perfetto, si direbbe, ma forse non era proprio così visto la brutta fine che ha fatto.
Per me, che ho vissuto lì nei primi dieci anni di vita, era un paese unico. Credevo ancora nella favola della fratellanza e dell'unità, forse l'avevo anche idealizzato un po', ma era il mio mondo, bello e dorato che mi dava la sicurezza, il benessere e la possibilità di visitare tanti bei paesi all'estero, grazie a quel passaporto rosso che apriva, come una specie di chiave magica, le porte dei tesori occidentali.
Poi, d'improvviso, l'incanto in cui credevo con tutta me stessa, svanì nel nulla. Era l'estate del 1991. Come sempre, passavamo le vacanze in una cittadina greca alla quale era legata tutta la mia infanzia. Una telefonata da mio nonno ci fece interrompere le tanto amate ferie. Ero confusa. Non capivo molto, solo che la Slovenia e la Croazia avessero dichiarato l'indipendenza dal resto del paese, e che non era una cosa bella, visto che in giro di poche ore i miei genitori prepararono il nostro rientro anticipato a casa.
La parola guerra non era molto ben chiara e definita nel dizionario di una bambina decenne. Quando ero piccola, i ragazzi spesso giocavano a partigiani contro tedeschi, evocando una guerra non vissuta da noi, ma da nostri nonni sì eccome, che credevo sarebbe stata l'ultima. La guerra, sapevo, era una cosa bruttissima, ma era qualcosa del passato, che non poteva esistere nel presente. Invece mi sbagliavo. Nel giro di pochi giorni iniziò quello che grandi chiamarono la guerra civile ma che non aveva proprio nulla di civile. Tutt'altro.
Come una cosa così negativa come la guerra, dove combattevano amici contro amici poteva essere una cosa civile? Non aveva nulla di positivo né corretto in sé. Si moriva, ma non riuscivo a capirne ragione. Era possibile che l'amore, la fratellanza fossero così facilmente distruttibili? Se tutto questo oddio davvero esisteva, il paese che avevo amato così tanto era solo una bugia? Non capivo. E più domande mi facevo, più confusa diventavo. Sei piccola, non puoi capire – mi dicevano. Infatti, non capivo. Forse mai ci riuscirò.
In Slovenia il conflitto durò poco, è infatti conosciuto come la “guerra di dieci giorni”, ma si spostò in Croazia, guidata all'epoca da Franjo Tudjman, dove si combatteva in oltranza, fino al 1995. Era una guerra sporca, segnata da pulizie etniche e da tanti Serbi che furono costretti a lasciare le loro case e trovare il rifugio in Serbia. Ricordo come se fosse ieri quando i primi profughi vennero nella nostra città. Li sistemarono nella scuola elementare che frequentavo all'epoca. Era la prima volta che sentii la parola profugo. Anche noi saremo profughi, come loro? Mi domandavo spesso chiedendomi dove saremo andati se la guerra fosse arrivata anche da noi. Ma non fu il caso.
L'anno successivo si cominciò a combattere anche in Bosnia ed Erzegovina, con a capo Alija Izetbegovic, che era nota per il suo essere multietnico, dove convivevano tre etnie diverse: Serbi, Croati e Musulmani. In Bosnia avevo un'amica carissima, musulmana, con la quale il rapporto d'amicizia datava da molto prima che scoppiasse l'inferno balcanico. Ci eravamo conosciute in Macedonia, l'altra repubblica iugoslava che presto sarebbe diventata anche essa indipendente, due anni prima e avevamo l'abitudine di scriverci lunghe e bellissime lettere che un giorno smisero di arrivare. Quando la chiamai mi disse che dovevo dimenticarla e che non potevamo essere più amiche. I nostri connazionali combattevano, ma io non c'entravo. Non capivo, ma dovevo adattarmi alla situazione contro la mia volontà.
Che brutta cosa la guerra, allontanava i vecchi amici perché lo imponevano quei pazzi nazionalisti che un giorno avevano deciso di distruggere il mondo di molti bambini che non avevano nessuna colpa, se non quella di essere nati in un paese “sbagliato” oppure soltanto guidato dalle persone sbagliate. Tre pazzi, che non hanno fatto nulla per fermare la guerra in atto, tra quali uno in particolare importante, che era a capo della mia patria di adesso, Serbia.
Si chiamava Slobodan Milosevic ed era a capo del partito socialista, nonché il presidente della Serbia. Durante il suo regno il paese era piombato in un completo isolamento internazionale cominciato con le sanzioni economiche imposte dall'ONU nel 1992 che si sono protratte per 1271 giorni. Ricordo le difficoltà, soprattutto economiche, di quegli anni. Il valore del dinar, la moneta serba, cambiava tante volte al giorno. La nonna mi dava i soldi, quando riceveva la pensione in mattinata per comprare qualcosa, che nel giro di poche ore non avevano alcun valore.
Con i suoi compari il croato Tudjman e il bosniaco Izetbegovic, aveva combattuto a lungo, con vari piccoli accordi di pace che durava poco. Era una guerra terribile che aveva distrutto molte famiglie, con tante vittime in ogni parte dell'ex-paese, durata fino al 1995, quando i tre “grandi” si degnarono a firmare gli accordi di pace di Dayton che porsero fine al conflitto armato.
In Serbia, poi, nel 1999, per tre mesi ci fu il bombardamento della NATO, in seguito alla crisi del Kosovo. Tre mesi lunghi che avevano segnato la mia esistenza e che, in parte, furono la classica goccia che fece traboccare il vaso, visto che l'anno successivo lasciai il paese e mi trasferii in Italia che, l'ironia della sorte, fu uno dei paesi dell'alleanza che aveva partecipato al bombardamento. Lo stesso anno in cui me ne andai, il 5 ottobre cadde il regime del tiranno Milosevic, che fu mandato all'Aia, al tribunale internazionale dove fu processato per i crimini di guerra. Proprio lì morì, nel marzo 2006.
Non lo amavo, anzi lo detestavo. La sua morte non mi fece né freddo né caldo. Con il suo decesso finì un'epoca della storia del paese che non c'è, morto e sepolto per molti, ricordato con nostalgia dagli altri. Al suo posto ci sono altri piccoli paesi, ancora segnati dalle tristezze del passato che mirano a un futuro migliore. Sono successe tante, troppe cose per essere dimenticate, nonostante fossero passati due decenni dallo scoppio della guerra. Quella guerra orrenda che aveva cambiato la vita di molte persone, per sempre. Ricordi brutti non possono essere cancellati facilmente, ma memorie, quelle, almeno, possono far sì che non ripetiamo gli stessi errori un'altra volta. Evitiamo ai bambini di oggi il dolore che, a nostra volta, abbiamo provato al vedere scomparire un mondo che pensavamo fosse l'unico.
©2012 Emina Ristovic, The Italian Heritage Magazine